Gerardo Rueda e la tradizone artistica spagnola
Inizierò con una domanda: può un artista spagnolo non sembrare tale? Non dimentichiamo che da quando i romantici europei scoprirono e divulgarono felici il luogo comune di quel Paese esotico e dimenticato, la porta più accessibile all’Oriente, si consacrò un’immagine mitica della cultura spagnola come essenza del pittoresco, il che si riferisce ad un paesaggio e ad una tradizione certamente peculiari, ma anche a un’arte decisamente anticlassica. Ebbene, più di un secolo e mezzo dopo il trionfo di questa moda internazionale, dell’immagine romantica della Spagna, che si sviluppò tra il 1830 e il 1840, gli Spagnoli, e non parliamo degli artisti, trovano ancora diffi coltà nel farsi notare fuori se non si adattano a questo stereotipo turistico, a ciò che ci si aspetta da uno Spagnolo genuino. Questo luogo comune ha attecchito con tale forza che molti Spagnoli lo hanno accettato docilmente, e alcuni ci hanno persmo creduto. Anzi, con il suo condizionamento, questo pregiudizio ha segnato addirittura l’arte spagnola d’avanguardia, quella inizialmente per forza più cosmopolita.
Certamente, l’argomento dell’identifà nell’arte spagnola dell’epoca contemporanea e il modo in cui è vista dal di fuori è più ricco e complesso di quanto possa rendere un’immagine turistica stereotipata, come spero di poter suggerire con questo scritto. Ma come evitare di non sollevare la questione nel presentare l’opera di Gerardo Rueda, un artista spagnolo che non coincide assolutamente con l’immagine stereotipata di come avrebbe dovuto essere in quanto tale, immagine riduttiva che lui stesso esecrava esplicitamente? Così, ad esempio, Gerardo Rueda in una conferenza da lui tenuta al Museo del Prado nel 1990 (nell’ambito di un ciclo intitolato Dodici artisti spagnoli d’avanguardia al Museo del Prado, al quale parteciparono i migliori artisti in vita del Paese, appartenenti a varie generazioni) dimostrò di avere dei gusti assai peculiari, che non coincidevano affatto con quanto che si ritiene debba attirare un artista spagnolo. La conferenza aveva un titolo molto signifi cativo: I miei colpi di fulmine al Prado e Rueda iniziava dichiarando il suo amore per i grandi maestri italiani, come Fra’ Angelico, Andrea Mantegna, Antonello da Messina, Giovanni Bellini e Raffaello, quasi tutti rappresentati scarsamente, anche se in maniera splendida, al Prado. Sottolineò anche le sue preferenze per opere di altri grandi maestri stranieri, come Van der Weyden, Bosch, Patinir, o Dürer, e si permise di concludere con un omaggio personale a un’opera non conservata al Museo del Prado, la Battaglia di San Romano, di Paolo Uccello.
Ma come? Gerardo Rueda non si interessava affatto all’arte storica spagnola? Evidentemente, in quella conferenza Rueda elogiò anche le opere di alcuni maestri spagnoli, come E1 Greco, Zurbarán, Velázquez o Goya, ma fu l’unico tra i convocati per l’occasione a non fare una lettura nazionalistica o esclusivamente spagnola della formidabile collezione del Museo. Nel colloquio che seguì al suo intervento si affrontò l‘argomento in modo più diretto e Rueda, interpellato in questo senso, disse:
“...Il fatto è che c’è, per così dire, un’esacerbazione, o una deformazione della cultura spagnola verso la spettacolarità, il drammatismo, che corrisponde forse a tutto ciò che è puramente spagnolo...
Credo che ciò sia dovuto al fatto che l’essenza della Spagna ci viene data dagli ispanisti, che sono di solito Francesi o Tedeschi, e dobbiamo dunque adattarci all’immagine che importiamo dall’estero e che si concretizza in un’autoimitazione di noi stessi, in un essere più Spagnoli per il solo fatto di essere nati in Spagna”.
Gerardo Rueda nacque a Madrid nel 1926 e visse sempre in Spagna, ma non volle per questo essere più enfaticamente Spagnolo del necessario, né nel suo stile personale né ancor meno nella sua arte. D’altronde, indicando la data e il luogo di nascita ho voluto sottolineare che la generazione di Gerardo Rueda si fece conoscere artisticamente negli anni Cinquanta, che sono gli anni dell’arte informale e dell’espressionismo astratto, gli anni del movimento di El Paso, dominati dalle potenti fi gure di Antonio Saura, Antoni Tapies, Manuel Millares, Rafael Canogar, ecc., quasi tutti ben radicati nei valori accettati della Scuola Spagnola, che sono quelli di un espressionismo drammatico, di una tecnica disinvolta, di un materialismo sostanzioso e infi ne di tutta una gamma di neri, rossi e ocra. Signifi cativamente, a seguire questi criteri pittorici furono coloro che, nell’ambito dell’avanguardia, ottennero un primo successo internazionale.
Questo signifi ca, dunque, che l’atteggiamento artistico di Gerardo Rueda è da considerarsi decisamente eterodosso rispetto alla luce della tradizione della Scuola Spagnola? A parte l’ovvietà che, in ogni caso, la pittura spagnola non può essere che quella prodotta dagli artisti del Paese, compresi coloro che non si adeguano al modello dominante, non appare neanche così evidente che il modello voluto dal luogo comune corrispondesse a ciò che avevano prodotto, in passato o nel xx secolo, gli artisti spagnoli. In questo senso, è già stato notato da più di uno studioso spagnolo che, accanto a una corrente di naturalismo espressionista predominante, è compresente storicamente un’altra corrente antitetica, che ha dato luogo a opere o fi gure caratteristiche, como quelle del Monastero di El Escorial, Zurbarán o Juan Gris. E, quindi, se si vogliono cercare precedenti storici nazionali a una sensibilità come quella di Gerardo Rueda, certo non ne mancano.
Ma non si tratta solamente di precedenti: possiamo calarci anche nella Spagna della fi ne degli anni Quaranta e inizio degli anni Cinquanta, il momento in cui Gerardo Rueda iniziò a dipingere. La Guerra Civile spagnola era fi nita appena dieci anni prima e non ne erano trascorsi ancora cinque dalla conclusione della Seconda Guerra Mondiale che, nonostante la neutralità spagnola, aveva inciso enormemente sul Paese, che viveva in modo assai tragico il suo dopoguerra. Devo ricordare fra l’altro l’isolamento diplomatico subito dal regime di Franco, che ebbe conseguenze anche sul mondo culturale ed artistico. In questo senso, anche se ormai alla fi ne degli anni Quaranta, ci furono alcuni primi tentativi locali di rianirnazione dell’avanguardia, quali la creazione del gruppo catalano Dau a1 Set, al quale aveva preso parte A. Tapies, o la Scuola d’Altamira a Santillana del Mar, storica località vicina a Santander, presso la quale erano attivi Miró, Llorens Artigas, Alberto Sartoris, ecc. Ma le situazioni sociali, economiche e politiche erano troppo ostili allo sviluppo “normale” di una qualsiasi attività artistica. Ci fu bisogno, dunque, di aspettare il decennio seguente, gli anni Cinquanta, perché si potesse osservare una certa riorganizzazione dell’avanguardia artistica locale in sintonia con quella internazionale. Tutto questo signifi cò la diffusione dell’astrattismo tra i giovani artisti spagnoli di allora.
La contemplazione dei primi quadri di Gerardo Rueda, eseguiti a cavallo tra la seconda metà degli anni Quaranta e la prima metà degli anni Cinquanta, ci fornisce alcune chiavi di lettura per capire il momento artistico spagnolo e, sopratutto, quello suo personale. Perché la singolarità di Gerardo Rueda si fa palese giá da allora, in circostanze così ostili. Se osserviamo un piccolo olio datato 1946 e intitolato Vista desde mi ventana (Vedufa dalla mia fi nestra), e lo osserviamo in rapporto alla pittura spagnola del momento, non possiamo che rimanere sorpresi. Questo raffi nato quadretto, realizzato da un pittore di 20 anni, ci riporta forse al Juan Gris del 1910-11, ancora sul punto di iniziare la sua immersione nel cubismo. Lo potremmo ricollegare, probabilmente, a Glorgio Morandi; ma in ogni caso, mi risulta diffi cile immaginare in che modo si potrebbe accostare questa pittura a quella che si produceva allora in Spagna. D’altra parte, la transizione da questi paesaggi urbani verso quelli sempre più astratti che Rueda avrebbe realizzato nella prima metà degli anni Cinquanta, non coincide nemmeno con il percorso dominante intrapreso dai suoi colleghi della stessa generazione, la maggioranza dei quali deviarono verso concezioni astratte più espressionistiche. E non che Rueda preferisse una linea normativa piuttosto che espressionistica o informale –cosa che comunque avvenne per assai pochi in Spagna, Palazuelo o Sempere– ma piuttosto non sembrava identifi carsi con nessuno degli schemi allora operanti.
La storiografi a artistica, disciplina accademica di recente creazione, ha abusato dei modelli riduttori per ordinare e spiegare un argomento complesso quanto l’esperienza artistica nel corso del tempo. In ogni caso, questa visione semplicistica danneggiò in modo assai più evidente l’arte contemporanea, sia per il fatto di essere contemporanea sia per essere stata investita da una nuova dinamica di accelerazione dei cambiamenti. Per tutto questo, com’é noto, ci troviamo oggi in piena revisione degli schemi tradizionalmente usati per interpretare il processo artistico, specialmente nel XX secolo, dato che lo schema abituale per narrare il suo percorso, quello cioè della successione dei movimenti d’avanguardia, escludeva o valutava in modo pessimo troppe cose e troppi artisti indubbiamente fondamentali. Urgeva, quindi, questa revisione critica, la cosidetta crisi dell’avanguardia avvenuta negli ultimi anni del xx secolo. Ci troviamo quindi, con l’esigenza di riorganizzare la versione uffi ciale dominante e, di conseguenza, ognuna delle versioni subordinate, come quella, in particolare, della situazione artistica di ogni Paese. Nel caso particolare dell’arte spagnola del xx secolo succede la stessa cosa, anche se forse, in confronto, pone più problemi, data la peculiare situazione vissuta dal Paese per circa i tre quarti di questo già di per sé complicato ultimo secolo.
E’ facile comprendere che queste considerazioni sono in rapporto diretto non solo con la necessaria e quasi totale reimpostazione di ciò che è stata la versione canonica dell’arte spagnola della seconda metà del xx secolo, ma anche, e in modo più drammatico, quando ci si accosta all’opera di un artista quale Gerardo Rueda, uno degli artisti spagnoli che, come ho già detto, non è entrato in particolar modo in alcuno degli schemi utilizzati. Ma è anche vero che, grazie al suo avvicinarsi ad altri artisti come, sopratutto, Femando Zóbel e Gustavo Torner, e a ciò che i tre fecero per mettere in moto l’insolita esperienza del Museo di Arte Astratta Spagnola di Cuenca, riuscirono almeno a far sì che la loro presenza e la valutazione della loro opera, in questa cronaca storica uffi ciale dell’arte spagnola, non fosse cancellata o dimenticata. Ma basta purtroppo dare uno sguardo alla maggior parte dei libri o delle mostre retrospettive realizzate fi no a poco tempo fa, per constatare che sono considerati come una parentesi, come un incidente scomodo e perfi no molesto. L’argomento occulto in tutte queste teorie, che ci parlano del Gruppo di Cuenca (e perfi no di un’estetica o un gusto di Cuenca), fa pensare che coloro che vi erano coinvolti erano considerati dei raffi nati dilettanti, irresponsabilmente lontani dalla realtà e dalla storia della Spagna, quasi fossero “extra terrestri”. Quanto di inattendibile ed ingiusto v’è in questo discredito è troppo ovvio per limitarci ora a risolvere la questione con una protesta e un riscatto. La prima cosa da fare, invece, è raccontare le cose come sono accadute in realtà, valutarne il signifi cato storico e, attraverso di esso, rifarne una versione dalla maggior precisione critica.
Intanto, come ho già osservato poc’anzi a proposito degli anni Cinquanta, che furono importantissimi per la Spagna, non possiamo indubbiamente rassegnarci ad escludere o sottovalutare artisti come Gerardo Rueda, ma anche come Gustavo Torner, Pablo Palazuelo, José María Labra, Fernando Farreras, Femando Zóbel –che fu legato all’arte spagnola verso la metà di questo decennio–, Eusebio Sempere, Lucio Muñoz, ecc. Non si può neanche ignorare la nascita del nucleo del gruppo di artisti che piú tardi vennero defi niti “realisti rna drileni”, il cui percorso artistico iniziò in questo stesso decennio. D’altronde, è anche vero che lasciando da parte il modo in cui è stata scritta la storia, tutti questi artisti, prigionieri in un ambiente ostile o di una semplice mancanza di comprensione, ebbero al confronto maggiori diffi coltà ad affermare la loro presenza stilistica e ad organizzarsi in modo effettivo il che signifi cò in ogni caso, che la loro presenza reale nell’arte spagnola non si produsse fi no al decennio seguente, anche se in molti casi specifi ci, come quello dello stesso Gerardo Rueda, erano pienamente attivi già dalla seconda metà degli anni Quaranta.
Il Museo d’Arte Astratta Spagnola di Cuenca fu inaugurato uffi cialmente nel 1966; e, cioè, vent’anni dopo che Rueda aveva iniziato a dipingere e circa dieci da quando Zóbe1, Torner, e lo stesso Rueda avevano iniziato la loro collaborazione. Ci sarebbe anche da dire che l’inagurazione del museo di Cuenca ebbe luogo cinque anni dopo la dissoluzione del mitico El Poso. Ma, ad ogni modo, non si può continuare a sostenere, come à stato fatto, che questo, comunque lo si defi nisca gruppo, estetica o stile di Cuenca, fosse un fenomeno della seconda metà degli anni Sessanta. Fra l’altro perché se si sostiene questa versione, lo stesso Museo d’Arte Astratta, in quanto portatore di una prospettiva artistica assai differenziata, non potrebbe spiegarsi. Voglio dire che il Museo di Cuenca non fu solamente rilevante per la sua singolarità museografi ca, ma anche come fenomeno artistico a sé stante, in quanto rivelazione di una certa visione e di una certa sensibilità. In altra sede, alcuni anni fa, nel 1997 per l’esattezza, in occasione della grande mostra dedicata proprio al Gruppo di Cuenca, ho avuto l’opportunità di trattare, in un saggio pubblicato nel catalogo di quella mostra, l’ampia infl uenza e il signifi cato che, da diversi punti di vista, hanno avuto il Museo e la sua estetica. Non voglio insistere adesso sulla stessa cosa, ma voglio almeno sottolineare che tutto ciò che è in rapporto con esso e pertanto con i suoi principali mentori, fu anche un’opera d’arte a sé stante, la materializzazione di una concezione e di uno stile artistici. Bisogna ricordare al riguardo che, com’è noto, al Museo non erano esposte solo le opere dei suoi creatori o di artisti loro affi ni, ma anche quelle di tanti altri che all’inizio avevano a che vedere poco o niente con loro. Bisogna prendere l’opera museografi camente risultante nella sua selezione, istallazione e trattamento quasi fosse, per così dire, un condensato sintetico, artistico e morale, di uno stile particolare, lo stile di Cuenca che era stato incubato per almeno dieci anni prima dell’inagurazione del Museo.
Osserviamo adesso i percorsi artistici di Zóbel, Rueda e Torner: non c’è tra loro troppa sintonia formale, perché il loro stile era diverso e, spesso, lo erano anche i loro atteggiamenti. Questo è già per cominciare, uno dei tratti distintivi di questo gruppo, almeno guardandolo da una prospettiva storica spagnola. Inoltre, quello che ognuno di essi faceva in quel momento, pur essendo diverso da quello che facevano gli altri, costituiva un’alternativa non solo rispetto alla corrente dominante dell’astrattismo spagnolo, ma anche nei confronti della maggioranza delle reazioni locali che questo aveva generato agli inizi degli anni Sessanta. E’ possibile analizzare tutto questo anche attraverso l’evoluzione di Gerardo Rueda, la cui opera dei primi anni Sessanta, dopo molti anni di produzione astratta individuale, deviò verso una tecnica di interpretazione del collage assai peculiare. Non mi riferisco a ciò che questa tecnica rivelava della sensibilità delle inclinazioni e persino della personale gamma cromatica di Rueda, ma al modo in cui, in piena crisi generale del linguaggio astratto, lui deviò verso una progressiva “oggettualizzazione” del pittorico. Questo orientamento può evidentemente essere messo in rapporto con quello che stavano già facendo Jaspers Johns, Rauschenberg, Fontana, Klein, ecc., ma in ogni caso, questa sintonia con loro da parte di Rueda non si tradusse assolutamente in un’adozione o in un’appropriazione. Tutto ciò si può osservare contemplando l’opera di Rueda di questi anni, ma sopratutto quella prodotta successivamente, fi no alla fi ne della sua vita.
Fra il 1965 circa e la morte, Gerardo Rueda realizza ciò che, dal mio punto di vista, bisogna considerare l’opera della maturità quella, dunque, che meglio rivela non solo la sua personalità peculiare, ma anche il signifi cato di questa nel contesto dell’arte spagnola e internazionale.
Ripercorrendo visivamente l’iter di Gerardo Rueda, da quei primi quadri risalenti alla metà del decennio confl ittuale degh anni Quaranta, ci si renderà subito conto che si ha a che fare con un artista, a mio avviso, per il quale l’ordine non corregge, ma rende palese, scopre l’emozione. La geometria, dunque, non è per Rueda un “correttivo” della realtà, ma un modo di osservarla e di presentarla al di là delle contingenze immediate. In un certo senso, Rueda non intende restare li, nell’immediato in modo immediato, ma mira piuttosto a trattare, ad essere in rapporto con l’immediato, che è un oggetto o un’emozione, con la necessaria prospettiva. Questo, certamente, corrisponde da un lato ad una mentalità analitica –ordinata– ma anche, dall’altro lato, ad un atteggiamento mistico. Quest’ultimo è molto importante per capire, ad esempio, l’identità storica dell’arte spagnola, molto condizionata dallo spirito della Controriforma, il che non signifi cava solamente una rigida interpretazione moralistica dei contenuti, ma anche un’esaltazione mistica, allucinata, del reale. In questo senso, un pittore come Zurbarán, che prima ho collegato a Rueda, subi l’infl usso del chiaroscuro caravaggesco, ma non solo: la sua pittura lascia trasparire l’im pronta dei grandi mistici spagnoli, come Teresa de Ávila o Juan de la Cruz. Quest’ultimo, meraviglioso poeta erotico, difendeva le immagini in quanto in esse si cerca “l’occasione, la suggestione e il godimento della volontà per la vitalità che raffi gurano”.
In questo senso, l’importanza degli oggetti, per quanto umili fossero, e dell’oggettività, si traduce per Zurbarán non solo nella semplice riproduzione o imitazione, ma come fonte di intensità e di emozione. Da parte sua, Teresa de Ávila, molto espressivamente, rese assai popolare l’esigenza di saper “trovare Dio tra le pentole”, un motto molto in sintonia con quella che potremmo defi nire “natura morta ispirata al divino”. Come vedremo, nell’analisi di Gerardo Rueda v’è come un palpito di questo anelito di avvicinamento all’immediato trascendendolo, non perché questa trascendenza debba essere un’idealizzazione della materia grezza, ma per la rivelazione di ciò che è implicito in essa, una fonte di intensità di percezione, perché qualsiasi cosa è un assoluto e rivela un assoluto. Non v’è forse un’eco di tutto questo anche nello stesso Juan Gris, di tendenza assolutista?
In ogni caso, la ricerca del rigore, della precisione, è connaturata a Rueda, ma qualsiasi sia il suo substrato storicoantropologico, la sua opera deve essere affrontata a partire da premesse contemporanee. Come ho già osservato in precedenza, quest’opera di Rueda non cambia negli anni Sessanta ma si fa più chiara. Con le prime manifestazioni di questo chiarimento, Rueda aveva già rivelato tendenze che non solo lo avvicinavano a pittori come Nicolas de Staël o Poliakoff, ma anche a Fontana. Nel corso degli anni Sessanta, invece, Rueda si radicalizza in due sensi: da una parte dimostra una certa affi nità con la corrente del neodadaismo, con il suo recupero di frammenti di realtà e il suo violento inserimento nel dipinto, e simpatizzò anche con quel modo “freddo” di oggettivare il pittorico nell’astrazione post-pittorica; dall’altra, invece, cerca di riversare in tutto quanto un’intensità emozionale. Il risultato di queste ricerche fi nirà per emergere nel suo dialogo –una rifl essione dialogata– con due artisti che, a mio parere, sarebbero stati decisivi per la maturazione del suo linguaggio personale. Mi riferisco a Kurt Schwitters e a Giorgio Morandi. Dal mio punto di vista, la parte davvero appassionante del dialogo che Rueda intraprende artisticamente con entrambi, consiste nel fatto, per cosi dire, che li “incrocia”, e cioè: vede Schwitters attraverso Morandi e Morandi attraverso Schwitters. Si tratta in defi nitiva di usare qualsiasi materiale, qualsiasi cosa, qualsiasi immediatezza, per rivelarci quello che hanno di unico, e quindi l’ordine, la determinazione. In questo senso, ciò che col pisce in Rueda è la sua ascesi metodica, la sua disciplina che, se ci impressiona è perché non arretra di fronte all’incerto, all’immediato, all’apparentemente insignifi cante.
Gerardo Rueda, certamente, rinnega il rumore, il gesticolare, e qualsiasi enfasi. La sua tendenza alla geometria, oserei dire che è stimolata dall’avversione all’altisonanza, alla retorica, all’espressionismo. E’ possibile anche riportare questo atteggiamento o, perché no, questa sensibilità, a quella di Morandi, un artista che riduce il visibile fi no ad estremi così silenziosi da poter dire che i suoi oggetti, se si accetta il paradosso, “urlano”, nel senso che riescono a darci l’impressione che le cose ridotte alla loro essenziale solitudine “fremano” o, come ha sottolineato assai bene Severo Sarduy commentando le nature morte di Morandi, producano “il frastuono della vacuità”. Nonostante questo, in sintonia con Morandi ma diversamente da lui, Rueda non è esattamente un pittore del silenzio, ma un artista della discrezione. Rueda, infi ne, non vuole che il silenzio faccia rumore, che provochi frastuono, e non lo vuole, molto discretamente, perché elude ogni situazione defi nitiva, ogni chiusura. Schiva tutto questo con l’ironia e così lo rende contingente, lo relativizza. Come suggerivo prima: Morandi da Schwitters, Schwitters da Morandi. Cioè, una dialettica viva fra il caso e la determinazione.
L’arte della discrezione mi riconduce ad un altro precedente spagnolo molto signifi cativo e cruciale per il caso in esame. Mi riferisco a Baltasar Gracián il quale, fra i trattati morali più noti, ne scrisse uno che si intitolava proprio El discreto (Il discreto) poiché era, soprattutto, un moralista che privilegiava, nel suo sistema di pensiero, il saper cogliere l’occasione e l’arte della duttilità. La discrezione e la duttilità artistiche di Gerardo Rueda hanno, a mio parere, un rapporto molto stretto con lo spirito di Baltasar Gracián, un formidabile pensatore che consigliava di destreggiarsi tra le cose, tra le passioni, senza mai lasciarsi imprigionare da loro; nell’acquisire una disciplina morale e, perché no, anche artistica in questo caso. In quest’ottica, ci può forse soprendere che quest’arte della discrezione che attribuisco a Gerardo Rueda sia anche l’elemento determinante della sua indubbia “eleganza”? Perché Rueda è stato innanzitutto, umanamente e artisticamente, un uomo elegante.
Nel capitolo IV di E1 discreto, Baltasar Gracián parla, se non proprio di eleganza, di “galanteria”, ma non nell’uso cortese della tradizione francese. Gracián si riferisce piuttosto ali’equilibrio, aspetto per il quale converge con la posizione di Gerardo Rueda, a cui calza molto bene, eticamente ed esteticamente, il ritratto completo dell’uomo discreto, compresa la conclusione: “Rende eruditi il vedere, il contemplare rende saggi... E’ corona della discrezione il saper fi losofale, traendo da tutto, come ape operosa, il miele gustoso del benefi cio o la cera per la luce della con sapevolezza”.
Ma, che ha in comune questo ritratto di Geranio Rueda con lo stereotipo consolidato del “artista spagnolo”? Con questa domanda ritorno all’interrogativo iniziale, anche se a questo punto spero di aver trasmesso al lettore una certa sensazione di progresso. Considerando alcuni spunti della tradizione culturale e artistica spagnola sono giunto alla conclusione che la posizione di Rueda, pur non essendo quella consacrata dal luogo comune, non è comunque estranea a questa tradizione storica. Il non avervi fatto cenno in questa sede non avrebbe comunque annullato l’interesse per Gerardo Rueda come artista spagnolo, ma non è male tenerlo presente. D’altronde è anche un dato molto signifi cativo e certo favorevole vederci obbligati, nell’illustrare l’opera di Gerardo Rueda, a pensare a quanto ha signifi cato storicamente l’identità nazionale, perché dimostra che non è stato un artista accomodante né banale, bensì era animato da aspirazioni alte ed impegnate. Credo che questa qualità –pretendere in modo rifl essivo, senza elementi altisonanti– non solo lo distingue come persona, ma soprattutto differenzia la sua produzione che è, dagli esordi alla fi ne, e sia che si guardi ad essa dal di dentro vero o dal di fuori della Spagna, molto peculiare, del genere che adesso, quando molte delle battaglie artistiche del xx secolo volgono alla fi ne come del resto volge alla fi ne il secolo stesso, ci obbliga a meditare o, come suggeriva Gracián, non solo a guardare, ma a contemplare. Ormai non ci sono più linee rette, ed è il momento di fare attenzione alle linee perpendicolari, agli incrol a che hanno attraversato la dinamica avanguardistica della nostra epoca. Non si tratta di revivals, di recuperare o riscattare più o meno nostalgicamente, ma di guardare all’arte, all’arte tormentata del xx secolo, in un modo più complesso e profondo. E’ il momento, insomma, di incontrarci con Gerardo Rueda e di vedere in che misura ha contribuito ad una miglior conoscenza dell’arte spagnola e dell’arte in sé. Ci troviamo, dunque, di fronte a una sfi da.
Per concludere, vorrei dire qualcosa sulla mostra allestita ora in Italia e che ha dato l’ccasione per la stesura di questo testo. Non si tratta, peró, di nessuna rifl essione opportunistica, sulla scia di quanto si è detto sul peso dell’identità nazionale nell’arte, ed in particolare nell’opera di Gerardo Rueda. In primo luogo, si tratta di una mostra retrospettiva che si presenta al di fuori della Spagna, sebbene in un Paese, l’Italia, in cui l’artista spagnolo aveva già esposto in precedenza, dato che aveva, come già accennato, un rapporto artistico alquanto speciale con alcuni artisti italiani sia del passato che del xx secolo. D’altra parte, ritengo molto interessante che il Commisario Artistico sia l’affermato critico d’arte statunitense Barbara Rose, che dà il suo contributo con una visione esterna, ma fondata su una conoscenza assai completa dell’arte spagnola e italiana, cosa che le permette un certo distacco critico senza presentare lo svantaggio di essere condizionato da luoghi comuni o da pregiudizi. In questo senso, credo che la sua selezione delle opere del percorso artistico di Rueda costituisca un punto di vista innovativo e stimolante, non solo perché diverso, ma anche perché non mediatizzato, come sarebbe avvenuto se la mostra fosse stata realizzata in Spagna. A volte è necessario distogliere l’attenzione dagli sguardi abitudinari che si concentrano sull’opera di un artista, sia a suo favore che contro. Nel caso concreto di Gerardo Rueda, il rinnovamento della visione critica della sua opera ha un signifi cato speciale perché, oltre a tutto ciò che ho scritto sulla sua forma peculiare di collocarsi nella tradizione artistica spagnola, è stato un creatore con un atteggiamento assai anticonvenzionale e sul quale bisognerà tornare in futuro per chiarire molte cose che devono ancora avere una spiegazione. Ho defi nito Gerardo Rueda un artista rifl essivo, elegante, ironico e discreto. Tutte queste qualità sono certamente più caratteristiche di Velázquez che di Goya, ma come ben comprese Edouard Manet nel suo viaggio in Spagna nel 1865 per visitare il Museo del Prado, il merito di Goya risiede nell’aver capito l’eccellenza di Velázquez e il suo moderno potenziale. Per quanto riguarda l’interesse che suscita questa mostra delle opere di Gerardo Rueda, esso consiste nel rivelare la partecipazione di quest’ultimo al dialogo artistico nel tempo, un dialogo in cui, per certo, lui ha detto molto, e nel modo più singolare, sia se stesso, come sull’arte spagnola.